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mobbing il mio diritto

Mobbing sul Lavoro

mobbing il mio diritto
Nel mondo del lavoro, molto spesso si usa il termine “mobbing” senza realmente conoscerne il significato.

La parola “mobbing” deriva dall’inglese “to mob” (letteralmente: “assalire”) ed indica quel complesso di atti persecutori, ripetuti nel tempo, che creano nella vittima disagi psicologici, psicosomatici e sociali tali da poter essere equiparati ad una vera e propria malattia. Si tratta, quindi, di un concetto molto complesso e dai contenuti estremamente incerti. Il sistema legislativo italiano non fornisce alcuna definizione della parola “mobbing” e costringe, pertanto, a desumere il concetto dall’insieme della decisioni giurisprudenziali maturate sul tema nel corso degli anni.
Fonte da cui partire è l’art. 2087 c.c., secondo cui: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Trattasi, chiaramente, un ampio contenitore che ricomprende al suo interno diversi obblighi per il datore di lavoro.
Costante Giurisprudenza interpreta la norma estensivamente, includendo in tali obblighi non solo la prevenzione infortuni e la salubrità dell’ambiente lavorativo, ma anche la tutela della salute del lavoratore, costituzionalmente protetta dall’art. 32 Cost.
In tal senso, il datore di lavoro ha l’obbligo di astenersi dal tenere comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore, di prevenire e reprimere eventuali comportamenti simili posti in essere da altri dipendenti dell’azienda. Insomma, letta da un punto di vista meramente teorico, la tutela sembra essere molto ampia e la disciplina normativa estremamente favorevole al lavoratore.
A ben vedere, però, risulta in concreto molto difficile dimostrare di essere stati effettivamente “mobbizzati”. Prima di tutto, è bene capire che il concetto di mobbing non va confuso con il semplice danno da demansionamento o marginalizzazione professionale.
Tali vessazioni possono rappresentare indici di quel complesso di atti persecutori che dimostrano l’esistenza della “patologia”, ma non sono di per se sufficienti ad integrarla. Perchè gli atti persecutori subiti sul posto di lavoro possano trasformarsi in vero e proprio “mobbing” è necessario che:

  1. siano ripetuti frequentemente e sistematicamente nel tempo per un periodo di almeno 3 – 6 mesi;
  2. siano commessi da aggressori che si pongano in una situazione di chiara superiorità rispetto alla vittima;
  3. sia possibile individuare negli atti posti in essere, almeno due tra le seguenti azioni: attacchi alla reputazione (ad es. abusi, insulti, calunnie), violenza o minacce di vario genere, isolamento del lavoratore (es. tramite collocazione in un luogo isolato o divieto per altri dipendenti di parlargli), demansionamento e marginalizzazione;
  4. sia chiaramente riscontrabile un intento persecutorio nella condotta dell’aggressore.

La vittima del mobbing può subire disturbi della psiche e patologie psicosomatiche tanto forti da sfociare in vere e proprie malattie professionali riconosciute ed indennizzate dall’INAIL.
Provare il nesso di causalità tra gli atti persecutori ed i disturbi patiti è spesso impresa ardua. Dinanzi al Giudice del Lavoro adito, sarà, infatti, necessario fornire una prova testimoniale molto rigorosa, supportando le proprie tesi documentalmente con certificati medici rilasciati dal proprio medico di base, dal proprio psichiatra e da centri specializzati nella cura di patologie legate al mobbing. Nulla potrà, dunque, esser lasciato al caso.
L’azione volta ad ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, subiti dalla vittima, si prescrive nel termine decennale, trattandosi di responsabilità contrattuale per violazione degli obblighi di cui all’Art. 2087 c.c.

Avv. Ferdinando D’Ambrosio